PRODUZIONI PROSA E ALTRI PERCORSI

Nella Stagione 2016/2017 la Fondazione Teatro Donizetti ha iniziato la propria produzione nell’ambito della prosa.
Si tratta di spettacoli pensati, progettati e realizzati con cura insieme a coproduttori con cui da anni la Fondazione condivide passione e scelte artistiche.

ECLOGA XI

ACCABADORA

DEL CORAGGIO SILENZIOSO

ILIADE Il gioco degli déi

testo di Francesco Niccolini
liberamente ispirato dall’Iliade di Omero

drammaturgia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer
regia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer

con Alessio Boni, Iaia Forte
e con (in o.a.) Haroun Fall, Jun Ichikawa, Francesco Meoni,  Elena Nico, Marcello Prayer Elena Vanni

scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
disegno luci Davide Scognamiglio
musiche Francesco Forni
creature e oggetti di scena Alberto Favretto, Marta Montevecchi, Raquel Silva

produzione Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
in coproduzione con Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, Fondazione Teatro della Toscana e Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

Sono causa di tutto, ma non hanno colpa di nulla, capricciosi, vendicativi, disumani: sono gli dèi immortali, e la loro commedia è la tragedia degli uomini, da sempre. Da un po’ di tempo però qualcosa è cambiato: sono diventati pallidi, immagini sbiadite dell’antico splendore, hanno perso i loro poteri e non sanno spiegarsi né come né quando sia iniziato il loro tramonto. Non si incontrano da secoli, dai tempi di Elena, Achille, Ettore, Andromaca, Priamo, Ecuba, Agamennone, Patroclo, Odisseo e degli altri personaggi di cui si divertivano a muovere i fili del destino, ma oggi un misterioso invito li riunisce tutti,
dopo tanto tempo. Chi li ha invitati? Per quale motivo?

A dieci anni dalla nascita, dopo I Duellanti e Don Chisciotte, il Quadrivio, formato da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer, riscrive e mette in scena l’Iliade per specchiarsi nei miti più antichi della poesia occidentale e nella guerra di tutte le guerre.
È dunque ancora la grande letteratura classica ad attrarre l’artista, che nella scorsa stagione è stato molto apprezzato per la sua ironica e umana rilettura del Don Chisciotte di Cervantes. Incentrata sulla guerra di Troia, l’Iliade offre a Boni e al suo gruppo l’occasione di osservare lo strano mondo delle divinità classiche,
dei miti più antichi e della guerra di tutte le guerre, argomento che purtroppo non cade mai in disuso.

Spettacolo realizzato in occasione di Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023
Prima Nazionale: Bergamo, Teatro Donizetti | 12 dicembre 2023

Distribuzione ed informazioni
Giulia Carlaccini
Tel. 081.7345666
E-mail: g.carlaccini@nuovoteatro.com
nuovoteatro.com

Crediti Foto – Gianmarco Chieregato

ECLOGA XI

un omaggio presuntuoso alla grande anima di Andrea Zanzotto

testi di Andrea Zanzotto
con Leda Kreider e Marco Menegoni
musiche e sound design Mauro Martinuz
drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto
regia, scene, luci Simone Derai
voce del recitativo veneziano Luca Altavilla
la scena ospita un’evocazione dell’opera Wood #12 A Z per gentile concessione di Francesco De Grandi

realizzazioni Luisa Fabris
immagine promozionale realizzata da Giacomo CarmagnolaProduzione Anagoor 2022

coproduzione Centrale Fies, Fondazione Teatro Donizetti Bergamo, ERT / Teatro Nazionale,
TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, Operaestate Festival Veneto

Il titolo di questo lavoro allude alla raccolta di versi IX Ecloghe che Andrea Zanzotto pubblicò nel 1962. Il poeta di Pieve di Soligo sceglieva per modestia di stare un passo indietro al luminoso Virgilio e alle dieci ecloghe delle Bucoliche.

Oggi, tuttavia, noi possiamo scorgere nell’intera opera di Zanzotto la realizzazione di una catena poetica che da Virgilio (a Dante, a Petrarca, a Hölderlin, a Leopardi, a Pasolini, a Celan… transitando e rilanciando ponti di poeta in poeta) porta la fiamma oltre. Non una gara tra poeti, ma una corsa a staffetta: così la tradizione è sottoposta ad oltranza per mettere a rischio se stessi più dei propri padri, per stare in precario equilibrio tra l’aura del passato e il disincanto cui la poesia va incontro in questa società post capitalistica.

Zanzotto sembra raccogliere tutti i testimoni, tutti i segnali di luce provenienti dal passato e, scorgendo in avanti i segni indecifrabili della luce futura, solleva e agita la lanterna nella notte del presente facendosi Virgilio per tutti noi.

Ultra moderno e antichissimo a un tempo, Zanzotto sa bene che la letteratura è come un coro di voci di morti. L’ultra modernità da antichissimo che connota Zanzotto non è tuttavia un dato puramente letterario, e la sovrimpressione delle bucoliche al proprio paesaggio, al proprio linguaggio, non è mai piana memoria letteraria, bensì̀ percezione di una irrimediabile frattura tra chi è ormai “versato nel duemila” e quel mondo perduto. Questa consapevolezza coincide e si estende in coscienza della faglia su cui si cammina che è una visione paleontologica più che storico-culturale: non si può più parlare di tradizione in modo neutro, dimenticando che i secoli intercorsi tra Omero e noi sono nulla rispetto alla vertigine del tempo biologico, geologico e ancor più astrologico.

Zanzotto capta e illumina l’inferno dentro il quale siamo calati eppure ostinatamente regge il fuoco di una speranza bambina.

L’intera sua opera rivela una natura complessa e cangiante, inafferrabile ma non oscura: il poeta del paesaggio, attraverso la visione della devastazione del paesaggio e la crisi del paesaggio interiore, della psiche e della lingua, afferra e connette le cause e gli effetti di un dolore che rende muti, ergendosi presto come forza civile e storica e persino metafisica. È qui che si manifesta il raggiungimento del maestro: l’intera opera di Zanzotto come una nuova ecloga, oltre le dieci di Virgilio, parla la voce futura della profezia e rinnova la visione di un bambino che verrà e sorriderà ai genitori.

Un sottotitolo accompagna il titolo principale “un omaggio presuntuoso alla grande anima di Andrea Zanzotto” esattamente come le IX Ecloghe erano state definite da Zanzotto stesso “un omaggio presuntuoso alla grande anima di Virgilio”: riconosciamo così come inevitabile il difetto rispetto ad un’opera immensa e (per quanto spinto dall’amore) arrogante ogni tentativo di definirla.

ANAGOOR E ZANZOTTO

Anagoor ha sede a Castelfranco Veneto e ha un atelier operativo nella campagna trevigiana in un ex allevamento di conigli trasformato in teatro.
Da sempre ha a cuore la relazione che intercorre tra politica, lingua, ambiente naturale e paesaggio: lo fa convocando sulla scena linguaggi diversi, una babele delle arti (da quelle visive alla poesia) nello sforzo di dire il reale e le sue fratture. Il collettivo opera in Italia e all’estero e ha ricevuto nel tempo diversi riconoscimenti (tra questi il Leone d’Argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia del 2018).
Anagoor pur non citandolo mai esplicitamente ha da tempo fatto propria la lezione di Zanzotto.
Molte le analogie che legano il gruppo di Castelfranco al poeta di Pieve di Soligo: la scelta radicale di osservare la storia dalla periferia senza che questa posizione implichi chiusura e arroccamento, la relazione complessa con la tradizione e con il canone che determina un’inattualità ostinata, la sofferenza per la devastazione, la tenacia nel rinnovare la fiamma di arti solo apparentemente inascoltate.

ANAGOOR, IL VERSO, ZANZOTTO E PASOLINI

Ecloga XI prosegue l’indagine scenica sulla parola poetica che da sempre Anagoor conduce.
L’inutile ronda e Ciclogenesi (Operestate Veneto 2005 e 2006) furono due primi embrionali esperimenti su versi di Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli, Alda Merini, Maria Luisa Spaziani, Silvia Bre, Patriza Valduga, Giulio Mozzi e altri.
Con il Magnificat di Alda Merini (2008) Anagoor inizia un percorso di esclusiva attenzione legato a singole voci poetiche. Con questo lavoro avvia l’esplorazione del mistero della parola e della sofferenza del poeta che si fa carne attraverso la voce dell’attore.
Il confronto con i versi in latino del II libro dell’Eneide, tra i più dolorosi e violenti prodotti dalla poesia di tutti i tempi, conduce alla creazione di Virgilio Brucia (2014): insieme riflessione sul fuoco della creazione artistica, sguardo alla storia e sciamanica evocazione della tradizione. La memorabile performance di Marco Menegoni registrata al Piccolo Teatro di Milano è oggi travasata su vinile a imperitura memoria.
Un concerto/masque disperatamente amoroso (Master/Mistress, 2017) composto sui sonetti di William Shakespeare scivola nei territori oscuri della passione e anticipa i tempi oscuri della pandemia.
La traduzione dei versi di Eschilo per la messinscena dell’Orestea sono oggetto di analisi in Una festa tra noi e i morti, pubblicazione ad opera della casa editrice Cronopio, 2020.
Ma è con L’italiano è ladro di Pier Paolo Pasolini (2016) che Anagoor dichiara, come un manifesto, la propria posizione di medium che non rinuncia né alla riflessione critica né alla totale adesione emozionale alla bruciante urgenza del verso.
Giungere a Zanzotto dopo Eschilo, Virgilio e Pasolini è passaggio politicamente inevitabile. Zanzotto indica i sintomi di una megamalattia in corso. È una crisi di “un’idea dell’uomo rimasta abbastanza stabile per millenni”, ma è una visione che supera anche la mutazione antropologica pasoliniana. Se Pasolini assegna in definitiva la priorità ancora a una dinamica di classe, con l’idea di genocidio culturale nel descrivere la fine del millenario mondo contadino, Zanzotto come in una staffetta apocalittica estrema lo supera su un piano ecologico e planetario. Nel descrivere la sua apocalisse, Pasolini rimane in una prospettiva antropocentrica, non abbandonando la dimensione del tempo umano. Al contrario, attraverso l’espressione fine dell’eone, e nel contesto di una lucidissima visione della devastazione climatica definitiva Zanzotto inserisce la sua riflessione in un tempo non umano, quello, impensabile e perturbante, delle ere geologiche.

ANAGOOR, L’IMMAGINE, ZANZOTTO E GIORGIONE

Ecloga XI si apre per gli spettatori con un atto di puro ascolto in assenza di immagine. È offerta la riproduzione acustica di un nastro magnetico. Il nastro contiene la registrazione di un evento che è un doppio falso: si tratta di un immaginario antico carnevale veneziano, falso documento proveniente da un un’imprecisata epoca storica, ma è anche il reenactment, inautentico, del celeberrimo incipit del Casanova di Fellini per il quale Zanzotto compose i versi del Recitativo Veneziano raccolto poi in Filò. L’emersione e il crollo dell’idolo, la grande testa di Reitia antica dea delle popolazioni dell’alto Adriatico, tessitrice, cucitrice, riparatrice, imago e venusia, desiderata e negata, partorita dalla fantasia di Fellini-Zanzotto, racconta molte cose: della protervia di un’intera società (locale e universale), ma anche della sua fragilità, dell’eterno bisogno di costruire immagini ad arte, della loro inefficacia, della capacità della parola di ricucire i pezzi mancanti come in un sogno.
Nonostante potesse sembrare via congeniale per ribadire la denuncia ecologica di Zanzotto, in Ecloga XI Anagoor rinuncia completamente all’utilizzo delle immagini video con le quali ha intessuto più volte i propri lavori aprendo squarci sulla devastazione della terra e sulla violenza perpetrata sulle altre specie.
Il sipario si apre invece ancora una volta – come una nota ostinata – sulla Tempesta di Giorgione a cui Anagoor ha dedicato in passato altri lavori. Una grande riproduzione della tela del pittore di Castelfranco, primo e fulminante “paesaggio” della storia dell’arte, campeggia priva delle tre figure umane: senza l’uomo con l’asta e senza la donna nuda con il bambino, resta unicamente l’orizzonte della città turrita e deserta immersa e sovrastata dalla natura. Puro paesaggio, eppure non pura natura. L’orizzonte e la visione della natura sono irrimediabilmente mediati, filtrati, contagiati, corrotti dalla cultura. Galateo e bosco. Antinomia per eccellenza: il divario e le derive generate da questa tensione hanno implicazioni psichiche, etiche, politiche. E quando il terremoto apre la faglia, la psiche frana e la lingua si spacca. Alcuni poeti come sismografi sanno farsi antenna.
Ma quando è successo?
Dire l’origine è impossibile se non per mezzo di una infinita catabasi: si potrebbe solo scendendo nei regni dei morti, negli inferni violenti. È la morte del padre come per Enea o il crollo di quella grande quercia dopo una notte di tempesta? È il rogo del borgo di Pieve ad opera dei nazisti? La lunga agonia del proprio compagno fuggito in campo aperto non protetto dalle pannocchie e raggiunto dalle mitragliate? Sono le vittime di Hiroshima? I milioni di morti di tutti i Montelli della storia? A preparare la devastazione di cemento dei capannoni, delle arterie d’asfalto e delle escavazioni ci sono innumerevoli altre tombe e altre fosse. Bisognerebbe solo fondare il partito del vomito.
Il padre di Zanzotto era un pittore. In casa dipinse un fregio che era specchio artificiale dell’orizzonte esterno osservabile dalle finestre, monti azzurrini, selve, orti, broli, un fondale di paradiso, un teatrino edenico di animali e vegetali al centro del quale il padre pittore collocò Andrea stesso, il figlio bambino vestito da principe. L’orizzonte del paesaggio circonda Zanzotto ad anello, esterno e interno, naturale-artificiale, un abbraccio dolcissimo e mummificante, ma anche un baco da seta che preconizza una metamorfosi.
Al di là del paesaggio, graficamente barrato come scelse di scriverlo ad un certo punto, torna a comparire la testa di Reitia, tessitrice e cucitrice, desiderata e negata, torna a dire infinite possibilità di riparazione e ricucitura. È dal fitto più scuro del bosco, dall’intrico più inestricabile della selva, che germina il filo delle possibilità a venire.
Dietro il paesaggio negato, oscurato come l’icona sotto il quadro nero di Malevič, sorge un nuovo idolo, issato come un fondalino di carta lacerato e ricucito, un altro dipinto, un nuovo artificio. L’opera evocata su concessione e collaborazione diretta del suo autore è Wood #12 AZ di Francesco De Grandi, pittore siciliano, la cui selva fosforescente e radioattiva corona la profezia di un orizzonte futuro.

Anagoor, in pochi anni al centro dell’attenzione teatrale italiana ed europea, è il Leone d’Argento per il Teatro 2018. La compagnia ha condotto un lavoro profondo sulla ricerca di un nuovo linguaggio attingendo a immagini e simboli che riconducono alla nostra memoria culturale. “Il lavoro di Anagoor, mai privo di una potente estetica, riesce ad avere una funzione divulgativa rispetto a grandi tematiche; Anagoor non è mai popolare nella scelta dei testi, eppure lo è, nobilmente, nella restituzione artistica. Ciò che rende il loro lavoro a tratti concettuale ma anche profondamente artigianale è il fatto che non demandano a nessuno la scelta artistica, riuscendo come collettivo a realizzare tutto da soli, dalla scrittura del testo alla costruzione di scene e costumi sempre di grande impatto, a tal punto che i loro spettacoli sono programmati in molti teatri italiani e stranieri” (dalla motivazione).
La compagnia Anagoor è fondata da Simone Derai e Paola Dallan a Castelfranco Veneto nel 2000, configurandosi fin da subito come un esperimento di collettività. Oggi alla direzione di Simone Derai e Marco Menegoni si affiancano le presenze costanti di Patrizia Vercesi, Mauro Martinuz e Giulio Favotto, mentre continuano a unirsi artisti e professionisti che ne arricchiscono il percorso e ne rimarcano la natura di collettivo.
Laboratorio continuo, aperto a professionisti e neofiti, Anagoor è l’alveo di una creazione aperta alla città e alle sue diverse generazioni, dove, in un tentativo strenuo di generare un’arte teatrale della polis, non trovano soluzione di continuità l’azione pedagogica nelle scuole, l’intervento sul territorio, il richiamo alla comunità, le produzioni della compagnia.
Il teatro di Anagoor risponde a un’estetica iconica che precipita in diversi formati finali dove performing art, filosofia, letteratura e scena ipermediale entrano in dialogo, pretendendo tuttavia, con forza e in virtù della natura di quest’arte, di rimanere teatro.
Fra gli spettacoli: *jeug- (2008); Tempesta (2009), segnalazione speciale al Premio Scenario; Fortuny (2011); L.I. Lingua Imperii (2012), tra gli spettacoli vincitori del Music Theatre NOW 2015; Virgilio Brucia (2014); Socrate il sopravvissuto / come le foglie (2016) candidato ai Premi UBU come spettacolo dell’anno, Orestea / Agamennone Schiavi Conversio (2018) selezionato nel programma New Settings di Fondation d’entreprise Hermès.
Nel 2012 la compagnia approccia il teatro musicale con il film-concerto Et manchi pietà, cui fanno seguito tre regie d’opera: nel 2013 Il Palazzo di Atlante di Luigi Rossi (1642), presentato alla Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, nel 2017 Faust di Charles Gounod, produzione del Teatro Comunale di Modena, Teatro Valli di Reggio Emilia e Teatro Municipale di Piacenza e nel 2019 Das Paradies un di Peri di Robert Schumann, produzione del Teatro Massimo di Palermo.
Fra i premi ricevuti: il premio “Jurislav Korenić“ a Simone Derai come miglior giovane regista al 53mo Festival MESS (2012), il Premio Hystrio – Castel dei Mondi (2013), il Premio ANCT per l’innovativa ricerca teatrale, il premio HYSTRIO alla regia (2016) e il Premio ReteCritica.
Dal 2008 Anagoor ha la sua sede nella campagna trevigiana, presso La Conigliera, allevamento cunicolo convertito in atelier e dal 2010 fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies – art work space.

Distribuzione ed informazioni
Michele Mele
Tel. 347.2934834
E-mail: michelemele@anagoor.com
anagoor.com

Crediti Foto – Luciano Rossetti

ACCABADORA

dal romanzo di Michela Murgia
edito da Giulio Einaudi Editore
drammaturgia Carlotta Corradi
regia Veronica Cruciani
scene e costumi Barbara Bessi
luci Gianni Staropoli

video Lorenzo Letizia
assistente alla regia Giacomo Bisordi
con Monica Piseddu
produzione Compagnia Veronica Cruciani,
Teatro Donizetti Bergamo e Cranpi Spettacoli

Accabadora, uno dei più bei romanzi di Michela Murgia, nonché uno dei libri più letti in Italia negli ultimi anni (Einaudi 2009; vincitore Premio Campiello 2010), è il nuovo spettacolo di Veronica Cruciani.
È stato scritto da Carlotta Corradi su richiesta della regista che da subito ha pensato di farne un monologo partendo dal punto di vista di Maria, la figlia di Bonaria Urrai l’accabadora di Soreni.

La loro proposta è stata immediatamente accolta dalla scrittrice sarda, la quale per la prima volta ha deciso di appoggiare e accompagnare la nascita di uno spettacolo nato dal suo romanzo. Michela Murgia racconta una storia ambientata in un paesino immaginario della Sardegna, dove Maria, all’età di sei anni, viene data a fill’e anima a Bonaria Urrai, una sarta che vive sola e che all’occasione fa l’accabadora.

La parola, di tradizione sarda, prende la radice dallo spagnolo acabar che significa finire, uccidere; Bonaria Urrai aiuta le persone in fin di vita a morire. Maria cresce nell’ammirazione di questa nuova madre, più colta e più attenta della precedente, fino al giorno in cui scopre la sua vera natura. È allora che fugge nel continente per cambiare vita e dimenticare il passato, ma pochi anni dopo torna sul letto di morte della Tzia. È a questo punto della storia che comincia il testo teatrale. Maria è ormai una donna, o vorrebbe esserlo. Ma la permanenza sul letto di morte della Tzia mette in dubbio tutte le sue certezze.

«Ho scelto questo romanzo perché questa storia ci propone un modello alternativo di famiglia, dove la madre non è quella biologica ma adottiva, e quindi un modello diverso di società; ha un aspetto politico, che è quello che sempre mi interessa nelle storie che scelgo di mettere in scena.
Il dialogo tra Maria e Tzia Bonaria, sua madre, per me avviene solo nella testa della protagonista; è un dialogo tra sé e una parte di sé, tra una figlia e il suo genitore interiore. Per questo in scena ho posto una parete grigia che rappresenta uno spazio mentale, la scatola cranica di Maria da cui anche provengono dei suoni, suoni di tenebre notturne in cui Maria insonne cerca di superare il lutto della morte di questa madre di fatto. Da un punto di vista psicanalitico il primo grande lutto è proprio ‘io non sono mia madre’. Finisce il periodo imitativo e comincia la fase di consapevolezza del sé corporeo. È grazie a un processo dove mettiamo in luce una serie di diversificazioni che avviene il processo di separazione e questo provoca inevitabilmente una forma di angoscia. L’uccisione della zia diventa quindi una metafora della crescita di Maria che da immatura diventa donna, riattraversando il doloroso passato e proiettandosi verso il futuro.
Esiste un’antica credenza popolare che attribuisce alla comparsa del Doppio il significato di morte incombente. La figura della morte assume sembianze corporee, specifiche e inconfondibili, dell’individuo che ne fa l’esperienza. Il messaggio può essere tradotto cosi io sono la cosa a te più familiare e al contempo la cosa più terrificante che tu stesso possa incontrare, sono ciò che conosci da sempre e che da sempre ignori».

Veronica Cruciani

«Il monologo, in fondo, racconta una storia d’amore. In questo caso, tra una figlia e una madre. In questo caso, non la madre naturale. Ma l’altra madre. I due grandi temi che oggi chiameremmo dell’eutanasia e della maternità di fatto, nel testo teatrale come nel romanzo, creano un ambito di riflessione ma non sono mai centrali quanto l’amore e la crescita. Crescita sempre e inevitabilmente legata al rapporto con la propria madre, naturale, adottiva o acquisita che sia».

Carlotta Corradi

«Carlotta Corradi ha fatto un lavoro di tessitura, utilizzando tutte parole mie, ma in un modo in cui io non le ho usate. C’è un’originalità anche autoriale in questo testo. Chiamarlo ‘riduzione’ non va bene: è un ampliamento. Una visione che io non ho assunto perché la mia attenzione era sulla vecchia, non sulla bambina. È un pezzo di Maria che mancava, sono felice che siano state altre donne a vederlo. Probabilmente dieci anni fa, quando ho scritto il romanzo, non ero in grado di vedere la Maria adulta. Ora è un piacere leggerla nelle parole, negli occhi, nel gesto artistico di altre professioniste. Pur non avendo scritto una parola, potrei controfirmarla, la sento molto mia, molto somigliante all’intenzione letteraria che c’era nel romanzo».

Michela Murgia

Veronica Cruciani è attrice e regista. Nel 2003 Ascanio Celestini scrive per lei il monologo Le Nozze di Antigone – segnalato al premio Riccione e vincitore del premio Oddone Cappellino – di cui è interprete e regista insieme ad Arturo Cirillo. Nel 2004 fonda la Compagnia Veronica Cruciani con la quale indaga sul rapporto fra memoria e drammaturgia contemporanea. Nel 2009 vince il premio Cavalierato Giovanile – Migliori talenti under 35 e nel 2012 il Premio Hystrio-Anct dell’associazione dei critici italiani. Tra le sue ultime regie: Il ritorno di S. Pierattini di cui è regista e produttrice (2007), vincitore del premio della critica Anct come miglior testo italiano, La palestra di G. Scianna (2011), Peli di Carlotta Corradi (2013), Preamleto di Michele Santeramo prodotto dal Teatro di Roma e Due donne che ballano, prodotto dal Teatro Carcano di Milano (2015), La bottega del caffè di R.M. Fassbinder, prodotto dallo Stabile del Friuli Venezia Giulia (2016), Quasi Grazia di Marcello Fois con Michela Murgia nel ruolo di Grazia Deledda, prodotto da Sardegna Teatro. Dal 2013 è direttrice artistica del Teatro Quarticciolo di Roma.

Monica Piseddu si diploma come attrice all’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Dal 2002 lavora per oltre dieci anni con Arturo Cirillo in numerose produzioni, tra cui L’Ereditiera, Le Intellettuali, Le cinque rose di Jennifer, Otello, Lo zoo di vetro. Ha lavorato inoltre con Mario Martone in Edipo a Colono, con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini come attrice e collaborazione al progetto in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, con Massimiliano Civica ne La Parigina e L’Alcesti, con Antonio Latella in Natale in casa Cupiello e Ti regalo la mia morte, Veronika. Al cinema ha lavorato con Paolo Sorrentino ne La grande bellezza, e con Marco Bellocchio in Fai bei sogni. Nel 2007 riceve il Premio Ubu migliore attrice non protagonista, nel 2015 il Premio della Critica, il Premio Ubu migliore attrice e il Premio Le Maschere migliore attrice non protagonista, e nel 2016 il Premio Hystrio all’interpretazione.

Carlotta Corradi, classe 1980, drammaturga, vince il Mario Fratti Award 2014 per la drammaturgia nell’ambito del Festival InScenaNy con il testo Via dei Capocci, tradotto in inglese e messo in scena al Theatre For A New City di Manhattan; il testo è pubblicato in Italiano da Editoria&Spettacolo nel volume New Writing Italia 2. Nel 2012 scrive Peli – edito da Editoria & Spettacolo nel volume “Trittico a nudo” – che viene prodotto da Fondazione RomaEuropa e AtclLazio con la regia di Veronica Cruciani. Nello stesso anno entra a far parte del gruppo di drammaturgia guidato da Fausto Paravidino al Teatro Valle Occupato. Nell’ambito di questo scrive Aritmia, finalista al premio Hystrio Scritture di scena 2014. Nel 2017 è finalista al premio Riccione con il testo Nel bosco. Oltre a scrivere per il teatro, è documentarista.

Budapest – Ungheria
«In pochi minuti, il pubblico si adatta a questa strana lingua e viene trasportato in una sorta di nostalgia svolazzante e famigliare, come in un lontano sogno».
«Il tempo diventa un concetto relativo in questo giardino. Non c’è una narrativa lineare, solo sequenze di immagini che ci permetto di assaporare il sentimento di nuotare nel infinito oceano di dolore e ricordo».

Fidelio.hu – 23.03.2017

Distribuzione ed informazioni
Gerosa Michela
Tel. 035.4160612
E-mail gerosa@fondazioneteatrodonizetti.org

Crediti Foto – Marina Alessi

IVAN

liberamente tratto da I fratelli Karamazov
di Fedor Dostoevskij
riscrittura  Letizia Russo
consulenza Fausto Malcovati
regia Serena Sinigaglia

scene  Stefano Zullo
luci Roberta Faiolo
assistente alla regia Giulia Sarah Gibbon
con Fausto Russo Alesi
produzione ATIR Teatro Ringhiera e
Teatro Donizetti Bergamo

Il romanzo ha una scansione precisa: dodici libri divisi in due parti, ognuna di sei libri. Si comincia con la preistoria dei Karamazov: il padre Fëdor, istrione volgare che si abbandona con animalesca compiacenza alla lussuria, i tre figli che crescono senza amore, senza madri (Mitja è figlio della prima moglie, Ivan e Alëša della seconda, entrambe morte presto), in famiglie casuali, privi di punti di riferimento.

Nel secondo libro il loro incontro nella cella di padre Zosima: esplodono i conflitti sopiti, affiora la violenza selvaggia dei Karamazov, si respira già l’atmosfera del delitto. Seguono alcuni libri che hanno un chiaro effetto di rallentamento: l’azione reale passa in secondo piano, è come sospesa, tutto si svolge sul piano dell’azione verbale, domina il tema ideologico, la confessione, l’autoanalisi.

Comincia nel terzo libro il primo figlio, Mitja: capace di magnanimità e bassezze, è il Karamazov che pagherà più caro il caos morale in cui tutti si muovono. Nel terzo libro entra anche in scena il quarto figlio, il bastardo Smerdjakov: deforme, afflitto da epilessia, silenzioso, colmo di livore per il ruolo di servo a cui il padre lo costringe, plagiato dalla brillante e corrosiva intelligenza di Ivan, senza legami con la sua terra e la sua gente (dichiara di odiare la Russia, sogna la Francia), sarà l’esecutore materiale del delitto.

Nel quinto e sesto libro due altri grandi messaggi verbali: la confessione di Ivan a cui segue la “Leggenda del Grande Inquisitore” e la vita di Zosima, che Alëša racconta dalle labbra dello starec morente. […]. Negli ultimi sei libri è l’omicidio del padre che dà il ritmo. L’azione è tumultuosa: uno dopo l’altro i personaggi subiscono le crisi, le metamorfosi, e si incamminano verso uno dei due abissi: verso l’alto, la salvazione, o verso il basso, l’annientamento.

Il settimo libro si apre con “Le Nozze di Cana”: il realizzarsi dell’utopia dell’amore, il momento della gioia panica, la trasformazione di Alëša da adolescente a uomo pronto alla lotta. L’ottavo libro è la sfrenata orgia di Mokroe: travolti dal vino e delle danze, Mitja e Grušen’ka vivono la loro grande ultima ora d’amore libero e totali. Poi, l’arresto, il crollo di tutte le illusioni.

Nel nono libro si stringe la trappola intorno a Mitja: le schiaccianti prove lo indicano a tutti come parricida. Per lui non c’è scampo. Ma dalla situazione disperata nasce una nuova fede, una nuova coscienza. Il decimo libro è dedicato al tema dei bambini, uno dei temi centrali del romanzo che avrà la sua apoteosi nell’epilogo: a loro Alëša affida il messaggio di pace e di reciproca comprensione.

L’undecimo libro segna la crisi e il crollo di Ivan: i tre incontri con Smerdjakov lo mettono di fronte alla sua precisa corresponsabilità del parricidio, alla volontà perversa della sua insaziabile dialettica. La tensione e l’angoscia devastano il suo animo corruttore e producono l’allucinazione del diavolo: il brillante castello ideologico e morale dell’intellettuale scettico crolla definitivamente; rimangono la viltà, la miseria morale, la malattia mentale. L’ultimo libro è il processo. […]

Fausto Malcovati, Introduzione a I fratelli Karamazov, Garzanti

Gentili spettatori,

lasciate che vi introduca a questo spettacolo raccontandovi in breve di noi.

Per primo, l’attore: Fausto Russo Alesi.

Di costui non voglio certo ricordare i meriti e i talenti, che, ai più, son già noti. No, in questa sede mi preme sottolineare l’amicizia profonda e l’antico sodalizio artistico che ci lega.

È raro per noi teatranti ritrovarci nel tempo e seppur cambiati, riscoprire l’amore e la passione di sempre.

Noi, che cominciammo assieme poco più che ventenni.

Correva l’anno 1992, la Prima Repubblica crollava sotto i colpi di Tangentopoli, e noi, ragazzini, ci scoprimmo amici e colleghi, amanti di un teatro che non sapevamo ma avrebbe segnato le vite di entrambi. Lo stesso teatro, la stessa spasmodica ricerca di un senso per cui vivere, di un segno da tramandare. Ieri, coi tanti spettacoli vissuti assieme, oggi in questa nuova, meravigliosamente difficile, avventura.

E qui mi urge parlarvi di me. Poche, pochissime righe.

Amo i classici. Amo la grande letteratura russa dell’800 perché in essa gli uomini osavano ancora chiedersi il perché delle cose, osavano affrontare i grandi temi dell’esistenza, esercizio di spirito piuttosto inusuale per i nostri tempi chiassosi.

Chi sei? Cos’è l’uomo? Quale il senso del suo agire nel mondo? Cos’è la libertà? Esiste un ordine nel caos? E la violenza, la violenza di cui è intriso l’uomo, ha un’espiazione possibile?

Abbandonarsi alla lettura de “I fratelli Karamazov” è un viaggio nel tempo attraverso gli uomini, nell’uomo. Ed ecco spiccare un uomo tra gli uomini, o forse è solo un ragazzo troppo maturo per i suoi anni, il secondo dei figli Karamazov, il più tormentato, il più assolutamente umano: Ivan.

L’uomo e l’intera umanità visti dagli occhi di Ivan Karamazov, questo il nostro viaggio. I fratelli Karamazov secondo Ivan, se volete.

Ma come farlo da soli?

Io amo i classici e adoro Dostoevskij, questo l’ho già detto. Fausto è perfetto per Ivan, anche questo…no, questo non l’ho ancora detto, ma credetemi sulla fiducia, se per conto vostro non l’avete già pensato. Ma noi due non bastiamo di fronte all’enormità del viaggio intrapreso. Vi presento pertanto gli altri due compagni di ventura.

Letizia Russo, autrice teatrale, intellettuale originale, unica, capace di guardare al mondo e di trascriverlo come fosse il suo da sempre. A lei il compito di costruire una drammaturgia che a partire dal libro sappia racchiudere il pensiero e le azioni di Ivan. Non solo “Il grande inquisitore” dunque ma i nervi, i muscoli, l’anima, il sangue di chi quel racconto lo ha partorito. Lui, Ivan.

E infine Fausto Malcovati. Il professor Fausto Malcovati. Un vanto per noi italiani, se solo fossimo capaci di vantarci di qualcosa di diverso da un calciatore. Uno dei più grandi conoscitori della lingua e della letteratura russa in Italia. Fausto ci aiuterà a distinguere, a conoscere, a tradurre, a tradire senza “violare” l’opera dell’immenso autore russo.

Non altro posso qui aggiungere, a parlare sia da ora lo spettacolo.

E che vogliate apprezzarlo e goderne è desiderio sincero di noi tutti.

A teatro, dunque! A teatro!

Serena Sinigaglia

Serena Sinigaglia (1973) si diploma al corso di regia teatrale presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Dal 1996 è fondatrice e direttore artistico di ATIR. Dal 2007 è anche direttore artistico del Teatro Ringhiera di Milano. Il suo percorso registico da sempre si è articolato attraverso diversi filoni. Quello dei classici, tra i quali si ricordano spettacoli come: “Romeo e Giulietta” e “Lear ovvero tutto su mio padre” di W.Shakespeare, “Troiane” da Euripide, “Donne in parlamento” da Aristofane, in coproduzione con il Piccolo Teatro di Milano, “Nozze di Sangue” di Federico García Lorca, tradotto in barbaricino da Marcello Fois. Inoltre Serena Sinigaglia si è sempre dedicata con passione alla drammaturgia contemporanea. I principali passaggi di questo percorso sono stati gli spettacoli: “1943 – Come un cammello in una grondaia” tratto dalle Lettere dei condannati a morte della resistenza europea; lo spettacolo premio UBU “Natura morta in un fosso” di Fausto Paravidino con Fausto Russo Alesi; “L’età dell’oro” di e con Laura Curino; “Il grigio” di Gaber/Luporini, produzione Piccolo Teatro di Milano, con Fausto Russo Alesi; i due capitoli conclusivi del progetto Incontro con epoche straordinarie: “1968” e “1989 – crolli”; “La cimice” di Majakovskij, produzione Piccolo Teatro di Milano (2009); “La bellezza e l’inferno” di e con Roberto Saviano per il Piccolo Teatro di Milano; “Napoli non si misura con la mente” di Mario Santanelli produzione Napoli Teatro Festival 2009 e RAI Radio Televisione Italiana in collaborazione con ATIR; “Prospettive per una guerra civile” di Enzensberger; “Settimo” di Serena Sinigaglia al Piccolo Teatro di Milano (2012); “Ribellioni Possibili” di Luis García-Araus e Javier García Yague, produzione ATIR candidata agli UBU 2013; e nel 2014 il testo inedito “Italia Anni Dieci” di Edoardo Erba, produzione ATIR, e il testo “Alla mia età mi nascondo ancora per fumare” della drammaturga franco-algerina Rayhana, produzione ATIR.

Nel 2015 firma la regia del primo serial teatrale in Italia, “6Bianca” di Stephen Amidon, produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino in collaborazione con Scuola Holden, e (sempre nel 2015) quella di “Utoya” di Edoardo Erba con Arianna Scommegna e Mattia Fabris, produzione Teatro Metastasio; nel 2016 ha diretto “Nudi e crudi” di Alan Bennet, con Maria Amelia Monti e Paolo Calabresi per la Artisti Associati, e “Tre alberghi” di Jon Robin Baitz con Maria Grazia Plos e Francesco Migliaccio, produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia.

Dal 2001 Sinigaglia si misura anche con l’opera lirica in diversi allestimenti, ultimo dei quali “Carmen” presso lo Sferisferio all’interno del Macerata Opera Festival. Nel 2014 ha debuttato con “Tosca” al Teatro La Fenice di Venezia. Nel maggio del 2008 pubblica, per la casa editrice Rizzoli, il suo primo romanzo “E tutto fu diverso”.

Tra i premi si ricordano: Premio nazionale di regia al femminile Donnediscena (2005); Premio Franco Enriquez (2006); Premio Hystrio alla compagnia ATIR per la qualità e l’impegno della compagnia dimostrato negli anni (2006), Premio Milanodonna 2007 del Comune di Milano; Medaglia d’oro 2007 conferita dalla provincia di Milano per l’attività promossa da ATIR; Premio Regium Giulii 2008 per la miglior opera prima col romanzo “E tutto fu diverso”; Premio Milano per il Teatro 2009 per il miglior spettacolo con “L’Aggancio”; Premio Hystrio-Provincia di Milano a Teatro Ringhiera/ATIR 2012; la candidatura ai Premi UBU 2013 con lo spettacolo “Ribellioni Possibili”, Premio della Critica 2014 e Premio Hystrio alla Regia 2015.

Fausto Russo Alesi, diplomato alla Civica Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”, dal 1996 è uno dei soci di A.T.I.R.

Nel 2002 ottiene il premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Nella stagione 2000/2001 è Kostja ne Il Gabbiano di Cechov, diretto da Eimuntas Nekrosius; per questa interpretazione e quella di Natura morta in un fosso di Fausto Paravidino, regia Serena Sinigaglia, riceve il Premio UBU 2002 come miglior attore giovane. Nel gennaio 2003 è vincitore del 21st International Fadjr Theatre Festival a Teheran (Iran), attribuito dall’I.T.I. Unesco. Nel 2004 interpreta Il Grigio di Giorgio Gaber, regia di Serena Sinigaglia, ricevendo il “Premio Olimpici del Teatro” (premio ETI 2004), il premio Annibale Ruccello (2004), il premio Vittorio Gassman, la Maschera d’oro e il Persefone d’oro (2005). È interprete e regista dello spettacolo Edeyen di Letizia Russo. Ha lavorato anche con Gigi Dall’Aglio, Ferdinando Bruni, Armando Punzo e Gabriele Vacis, con Peter Stein (I demoni di Dostoevskij) e di nuovo con Serena Sinigaglia (L’Aggancio di Nadine Gordimer).

Diretto da Luca Ronconi ha recitato in Il silenzio dei comunisti, Fahrenheit 451, Nel bosco degli spiriti, Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia (nel ruolo di Shylock), La modestia di Rafael Spregelburd, Santa Giovanna dei macelli di Brecht (premio UBU miglior attore non protagonista). Per il ruolo di Kirillov ne I demoni e di Bottom in Sogno di una notte di mezza estate, ha vinto il Premio UBU 2009 come miglior attore non protagonista. Ancora al Piccolo è stato unico interprete e regista di 20 novembre di Lars Norén e, nella stagione 2010/2011, ha recitato in Nathan il saggio di Lessing, diretto da Carmelo Rifici.

Tra le altri recenti interpretazioni, protagonista e regista di Cuore di cactus di Antonio Calabrò.

Per il cinema è stato diretto da Silvio Soldini in Pane e tulipani e in Agata e la tempesta; ha recitato, tra gli altri, in Le rose del deserto di Mario Monicelli, In memoria di me di Saverio Costanzo (in concorso al Festival di Berlino), in Vincere di Marco Bellocchio, in concorso al Festival di Cannes 2009, in La doppia ora di Giuseppe Capotondi, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2009, in La passione di Carlo Mazzacurati, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2010. Nel 2012 compare in ben tre pellicole, Romanzo di una strage, regia di Marco Tullio Giordana; Venuto al mondo, regia di Sergio Castellitto e Il comandante e la cicogna, regia di Silvio Soldini.

Per Radio Rai ha letto il romanzo Padri e Figli di Turgenev.

Letizia Russo, nata a Roma nel 1980, inizia a scrivere per il teatro a 17 anni, al conseguimento del premio Grinzane-Cavour con il Dialogo tra Pulcinella e Cristo. Il suo primo testo, Niente e Nessuno, viene messo in scena nel 2000 al Festival Per Antiche Vie, diretto da Mario Martone, con la regia di Marcello Cotugno, con Ciro Damiani, Giancarlo Ratti e Alessia Giuliani.

Nel 2001, con Tomba di cani, vince il Premio Tondelli (Premio Riccione); il testo viene messo in scena nel 2002 dall’ATP di Pistoia, per la regia di Cristina Pezzoli, con Isa Danieli, Peppino Mazzotta, Sara Bertelà, Federico Pacifici, Giuliano Amatucci, Aram Kian, Enrico Casagrande. Il testo vince, nel 2003, il Premio UBU come miglior novità drammaturgica. Il testo è stato tradotto e rappresentato in Germania, Francia, Cile, Brasile, Portogallo, Slovacchia. Nel 2003, su commissione del National Theatre di Londra, scrive Binario Morto – Dead End, per il festival Shell-Connections, e viene rappresentato, nella traduzione di Luca Scarlini e Aleks Sierz, da trentadue compagnie giovanili in tutto il regno unito e rappresentato al National Theatre di Londra nel 2004. Nel 2004 scrive Babele, messo in scena al festival Petrolio, con la regia di Paolo Zuccari, con Paolo Zuccari e Roberta Rovelli. Il testo è tradotto e rappresentato in Francia, Germania, Brasile, Portogallo. La RAI ne ha realizzato un prodotto televisivo per la regia di Sandro Vanadia nel 2010. Sempre per la regia e interpretazione di Paolo Zuccari, scrive nel 2005 Primo Amore, testo che riscuote grande successo in Italia e all’estero. La messa in scena in Brasile, diretta da Alvise Camozzi, con la traduzione di Rachel Brumana, vale a João Miguel il premio Shell come migliore interpretazione. Nel 2015 il testo viene prodotto dal Theatre Ouvert di Parigi, con Mathieu Mantainer, regia di Isabelle Mouchard. Per Fausto Russo Alesi, che ne cura la regia e interpreta in ruolo principale, scrive Edeyen, che debutta al festival di Taormina nel 2005, com Pia Lanciotti, Debora Zuin, Sergio Leone, Maria Pilar Perez Aspa.

ATIR (Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca) è un’associazione culturale costituita nel 1996 con sede sociale a Milano su iniziativa di giovani neo-diplomati della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi; è una realtà attualmente composta da nove soci fondatori tra attori, regista, scenografo, e svolge da anni con continuità attività di produzione e tournée, diventando negli anni una delle compagnie italiane più riconosciute e apprezzate in Italia. Il 17 maggio 2016 compie 20 anni, un traguardo storico che pochi complessi artistici possono vantare.

Svolge inoltre regolarmente anche attività di formazione attraverso laboratori per professionisti e laboratori aperti alla cittadinanza, e da diversi anni ha consolidato un’ampia e articolata attività sociale rivolta a fasce di pubblico svantaggiate (disabili, anziani, giovani).

Nel 2008 ATIR ha scelto di stabilizzarsi e di trovare una sede, e ha preso in gestione, in convenzione con il Comune di Milano, uno spazio pubblico di 230 posti sito nella periferia sud della città, il Teatro Ringhiera, scelta che ha enormemente aumentato la quantità di attività organizzata e realizzata, non ultima la programmazione di una stagione teatrale.

Dal 2011 l’Associazione si è allargata a nuove tipologie di soci: ad honorem e sostenitori, ovvero pubblico, amici e simpatizzanti che con il loro apporto progettuale ed economico portano, attraverso lo strumento delle assemblee, nuove energie per il futuro. La direzione artistica è attualmente affidata a Serena Sinigaglia (43 anni) e la direzione organizzativa a Anna Chiara Altieri (39 anni).

La Compagnia, che nel corso di questi anni di vita ha intessuto rapporti intensi a tutti i livelli istituzionali, ha ricevuto e riceve costantemente contributi per la propria attività, oltre che dal Ministero, da: Comune di Milano (che nel 2012 ha inoltre riconosciuto ad ATIR l’Attestato di Civica Benemerenza, l’Ambrogino), Regione Lombardia. Nel triennio 2009/2011 ATIR ha ricevuto un finanziamento nel contesto del bando a sostegno delle residenze teatrali (Être) di Fondazione Cariplo e per il triennio 2012/2015 un ulteriore contributo a favore del miglioramento gestionale con il progetto ATIR +20, per la crescita e lo sviluppo della struttura della Compagnia.  Nel 2015 la compagnia ha avuto accesso ad un nuovo finanziamento triennale di Fondazione Cariplo nell’ambito del bando “Cultura sostenibile”, finalizzato sempre al miglioramento gestionale e all’ampliamento del pubblico.

Nel 2013 si sono approfondite alcune importanti collaborazioni già avviate negli anni precedenti: IMAB (Ministero della Cultura di Spagna), Istituto Cervantes, Consolato di Spagna, Être Associazione delle Residenze Teatrali Lombarde (di cui ATIR è socio), oltre a molte collaborazioni locali con università e scuole. Dal 2013 ATIR ha iniziato a partecipare anche ai meeting della rete europea IETM e ha avviato un importante progetto di rete locale e nazionale sui teatri che lavorano in periferia e in zone di particolare problematicità sociale (progetto TTT).

Distribuzione ed informazioni
Anna de Martini
Tel. 02.87390039 | 339.1154163
E-mail: annademartini@atirteatroringhiera.it | compagnia@atirteatroringhiera.it
atirteatroringhiera.it

Crediti Foto – Marina Alessi

DEL CORAGGIO SILENZIOSO

di e con Marco Baliani
collaborazione alla drammaturgia Ilenia Carrone

con musiche eseguite dal vivo
produzione Comune di Bergamo – Teatro Donizetti – Casa degli Alfieri

Del Coraggio Silenzioso ha debuttato il 26 agosto 2016 a Bergamo, nella Cattedrale di Sant’Alessandro, con le musiche composte da Mauro Montalbetti ed eseguite dal vivo dal Trio Hegel.

Da allora il reading è stato presentato in diverse occasioni e va cambiando sempre, avvalendosi di nuove anime sonore e sempre diverse ambientazioni. Tra i musicisti che hanno accompagnato questo reading: Mirko Lodedo, Fabio D’Onofrio, Max De Aloe.

Di solito si associa alla parola “coraggio”, un’azione eclatante, dettata da un’urgenza impellente, un’azione che sfida la morte e se ne appropria, mostrando una luminosa presenza dell’umano.
È il coraggio “numinoso”, visibile, mostrato, che accade in condizioni estreme, e che diviene poi epos, racconto, esempio.
Ma c’è un altro tipo di coraggio, silenzioso e non appariscente, ed è di questa declinazione della parola Coraggio che questo spettacolo vuole dire.
Il coraggio silenzioso agisce nell’essere umano quasi inaspettatamente, non presuppone una tempra guerriera, non si staglia sulla scena per mostrarsi nella luce, non si aspetta ricompensa, neppure quella, postuma, del racconto esaltante.

Questo coraggio agisce in forma sottomessa, agisce anch’esso per un’urgenza ineludibile, ma non pretende riconoscenza, non attende un ringraziamento, colui o colei che lo attuano lo fanno per necessità, una necessità che ha a che fare con la profondità dell’umano che è in noi, a cui è perfino difficile dare una spiegazione. Parole come compassione, solidarietà, altruismo, amore, carità, bontà, cercano di circoscrivere il mistero umano di quell’atto ma più che altro ne delimitano solo il valore empatico, perché non ci sono parole che spiegano come quell’impulso ad agire, nonostante tutto, avvenga in individui che di colpo “sentono” di dover compiere un gesto per loro improvvisamente “necessario”.
Antigone che, nonostante il divieto della legge di Creonte, va a seppellire il corpo del fratello, pagando con la morte questa trasgressione, è l’esempio archetipico di questa forma di coraggio. “Ci sono leggi non scritte, inviolabili, che esistono da sempre, e nessuno sa dove attinsero splendore”.
È questo splendore di cui parla Antigone quello che vado cercando in questo spettacolo, quel nocciolo luminoso che trasforma un’esistenza intera in un atto esemplare, ma silenzioso, luminoso ma vissuto nell’ombra, nel pudore, nella pura necessità del dover agire.
Andrò alla ricerca di cinque narrazioni, cinque situazioni estreme, ove far illuminare cinque esistenze, che, grazie al racconto, divengono, in quel luogo effimero e potente che è la scena teatrale, cinque testimonianze di taciturno coraggio.
Una struttura drammaturgica semplice, parole e musica che si intrecciano per restituire la semplicità scandalosa di quegli umani atti di coraggio silenzioso.

Marco Baliani

Distribuzione ed informazioni
Ilenia Carrone
Tel. 338.3237507
E-mail: ilenia.carrone@gmail.com | segreteria.baliani@gmail.com
marcobaliani.it

Crediti Foto – Gianfranco Rota

PER TE dedicato a te, cara Julie

scritto e diretto da Daniele Finzi Pasca
musica, co-design suono e coreografie Maria Bonzanigo
scenografia e accessori Hugo Gargiulo
costumi Giovanna Buzzi
co-design luci e direttore di produzione Alexis Bowles
video designer Roberto Vitalini
air sculpture designer Daniel Wurtzel
consulente di produzione Antonio Vergamini
co-design e tecnico del suono in creazione Fabio Lecce
assistente alla regia e direttrice di scena Allegra Spernanzoni
assistente alla regia & direttrice artistica della tournee Geneviève Dupéré
make-up designer e hairstyle designer Chiqui Barbé

sulla scena Allegra Spernanzoni,
Andrée-Anne Gingras-RoyBeatriz Sayad,
David MenesErika BettinEvelyne Laforest,
Félix SalasFrancesco LanciottiJens Leclerc,
Marco PaolettiMoira AlbertalliNicolò Baggio,
Rolando Tarquini e Stéphane Gentiliniproduzione della Compagnia Finzi Pasca
in co-produzione con LAC – Lugano Arte e Cultura,
RSI – Radiotelevisione Svizzera,
OSI – Orchestra della Svizzera Italiana e Teatro Donizetti
partenaires alla creazione Cornercard, Fidinam, Grand Hotel Villa Castagnola,
Caffè Chicco d’Oro e partner internazionale Helsinn, Clay Packi
con il sostegno di Città di Lugano, Canton Ticino and Pro Helvetia.Durata: 1 ora e 40 minuti (con intervallo)

“Palcoscenico sventrato, tecnici e attori che si muovono come gatti nel buio, che si preparano, che si immergono lentamente nella storia. E la storia avvolgerà piano piano lo spettatore, la storia di un libro regalato, di un giardino da costruire, di una lotta come le lotte che tutti prima o poi dovremo vivere e affrontare.
Julie credeva che ognuno dovesse cercare di costruire un giardino interiore dove andare a rifugiarsi, dove accogliere chi si ama, quelli che si sono persi e quelli che si vorrebbero scoprire.

Racconteremo dunque la storia di una panchina e di un giardino, poi ci sarà la fragilità che ognuno di noi difende con armature e corazze. Ci sarà la leggerezza del ricordo delle sue risate, dei suoi libretti pieni di calcoli e di annotazioni, i suoi consigli e i suoi sogni. È la missione di ogni vita cercare di costruire un giardino interiore dove andare a rifugiarsi, dove accogliere chi si ama, quelli che si sono persi, quelli che si vorrebbero incontrare in un luogo intimo e riservato. Abbiamo tanto raccontato storie confinate in spazi chiusi, immaginate nella scatola segreta che portiamo attaccata alle spalle, dentro la quale generiamo sogni e viaggi immaginari.

Questo spettacolo è dedicato a chi pianta semi che diventano alberi, a chi disegna spazi aperti immaginati per riflettere, per rasserenare l’anima.”

Daniele Finzi Pasca

21 giugno 1972 – 14 maggio 2016
Montréal – Lugano

Una ragazza in un mondo di uomini. Julie ha avuto un percorso eccezionale. Giovane, a 21 anni, è co-fondatrice del Cirque Eloize a Montréal. Gli spettacoli che lei produce portano la compagnia sui palcoscenici più rinomati del mondo, peraltro grazie al suo lavoro di sviluppo internazionale del quale è responsabile.
Un incontro magico si verifica quando Julie conosce Daniele dopo una rappresentazione di Visitatio, spettacolo del Teatro Sunil e Carbone 14 presso l’Usine C a Montréal nel 2000. Julie lo invita a collaborare. Questa collaborazione farà nascere la Trilogia del cielo, composta da Nomade, Rain e Nebbia. Questi tre spettacoli faranno il giro del mondo proponendo un’unica firma e uno stile particolare di approccio creativo: “il teatro della carezza”. Julie si identificherà pienamente in questa tecnica sviluppata da Daniele e da Maria Bonzanigo.

Giunto il momento di continuare il suo cammino con Daniele, suo grande complice nella vita e nelle arti, fondano insieme Inlevitas nel 2010. Un anno più tardi, Inlevitas si unirà al Teatro Sunil per far nascere la Compagnia Finzi Pasca con gli stessi compagni delle prime collaborazioni, ossia Antonio, Hugo e Maria che avevano già nel loro percorso più di una quindicina di creazioni. Dopo la Trilogia del cielo e Corteo per il Cirque du Soleil, ci sono state la Cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici invernali di Torino nel 2006 e la regia dell’opera Love from Afar presso l’English National Opera di Londra. Hanno fatto seguito due altre cerimonie olimpiche, quella di chiusura dei Giochi Olimpici invernali di Sochi nel 2014 e quella di apertura dei Giochi Paralimpici della stessa edizione. A ciò si aggiungono quattro altre regie di opere: Aida e Requiem di Verdi con il Mariinsky Theatre di San Pietroburgo, Pagliacci e Carmen con il Teatro San Carlo di Napoli.

Tra queste produzioni, Julie collabora con Daniele alla scrittura e in qualità di creativ director per i tre spettacoli della Compagnia Finzi Pasca: Donka, La Verità e Bianco su Bianco. Insieme creano Luzia per il Cirque du Soleil e progettano Montréal Avudo per celebrare il 375° anniversario della città natale di Julie. Paralellamente, segue da vicino la pubblicazione del libro Teatro della carezza di Facundo Ponce de León e di Nuda, scritto da Daniele, così come la preparazione del progetto del film Piazza San Michele e lo spettacolo della Fête des vignerons 2019.

Grande visionaria, Julie ha messo in atto una struttura e un modo di lavoro al servizio della creazione artistica. Tessendo dei legami di collaborazione con rinomate istituzioni, la Compagnia Finzi Pasca è stata spinta al di là delle frontiere della Svizzera. Con spettacoli che ogni anno fanno il giro del mondo, produzioni per importanti case d’opera e la creazione di eventi su grande scala la ricchezza artistica di Lugano e della Svizzera italiana gode di una visibilità privilegiata su scala internazionale. Julie è stata inoltre invitata a dirigere gruppi di creazione di progetti di piccole dimensioni e dei più grandi spettacoli degli ultimi anni in Svizzera, in Russia, in Canada e in Italia, solo per citare qualche esempio.

Oltre alla sua abilità straordinaria di portare avanti progetti contro venti e maree , Julie, donna d’affari, è una fonte d’ispirazione sia per la nuova generazione di artisti che per le persone impiegate nella gestione delle arti, figure professionali che Julie si occupa di formare. Il suo tenero approccio, la sua capacità di far sognare l’interlocutore, la sua apertura e il suo ascolto sono impressi nella memoria di quelli che l’hanno conosciuta. Il suo impegno nell’ambito delle arti della scena e la costituzione di legami di collaborazione su scala internazionale le attribuiscono un ruolo molto importante per la visibilità internazionale delle arti del circo e del teatro. Oltre ai suoi successi, noi tutti ci ricorderemo delle sue qualità personali: la sua generosità, la sua tenerezza, la sua empatia, la sua leggerezza, la sua passione e il suo sorriso schietto apprezzati sia dagli attori più rinomati della scena internazionale che dagli artisti, i tecnici e gli amici in Québec, in Ticino, in Francia, negli Stati Uniti e nei quattro angoli del mondo. Ci lascia tanti bei progetti in corso e una tonnellata di ricordi preziosi, ma un vuoto immenso nel cuore. Grazie, cara Julie.

La Compagnia è stata fondata da Antonio Vergamini, Daniele Finzi Pasca, Hugo Gargiulo, Julie Hamelin Finzi e Maria Bonzanigo e ha sede a Lugano (Svizzera).

In quest’avventura s’incrocia la storia d’Inlevitas e quella del Teatro Sunil. Quest’avventura è generata dal desiderio di continuare a sviluppare dei progetti artistici che approfondiscano il “Teatro della Carezza”, tecnica del gesto invisibile e di uno stato di leggerezza. Attraverso gli anni, questi concetti hanno costruito un’estetica particolare che attraversa tutte le dimensioni: uno stile di creazione e di regia, un particolare modo di concepire la produzione, una filosofia di allenamento per l’attore, l’acrobata, il musicista, il danzatore e il tecnico, un atteggiamento per abitare lo spazio e riprendere la memoria che porta nostalgia e può commuovere. Il gesto poetico del clown che va da un monologo per un solo spettatore a una cerimonia olimpica, il teatro, la danza, il circo, l´opera, il cinema, tutto si riunisce in Compagnia Finzi Pasca.

Sette spettacoli in tournée internazionale:
Per te (2016)
Bianco su Bianco (2014)
La Verità (2013)
Donka – una carta a Cechov (2010)
Brutta Canaglia la Solitudine (versione originale, 1999 e versione spagnola, 2013)
Icaro (1991)
La Fête des Vigneorns, Vevey (Svizzera,2019)

Opere in repertorio:
L’Amour de Loin (2009)
Aida (2011)
Pagliacci (2011)
Requiem de Verdi (2012)
Carmen (2015)

Più di 25 creazioni, nelle quali si incontrano il teatro, il circo, la danza e la musica dal 1984 a oggi.
Regia per conto di altre compagnia e progetti particolari riconosciuti internazionalmente:
Cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Torino, Filmmaster Italia (2006)
Corteo (2005) e Luzia (2016) per il Cirque du Soleil

Trilogia del cielo:
– Nomade, la notte il cielo è più grande per il Cirque Éloize (2002-2006)
– Rain, come una pioggia nei tuoi occhi per il Cirque Éloize (2004-2012)
– Nebbia co-produzione tra il Cirque Éloize & Compagnia Finzi Pasca (2007-2011)
Cerimonia di Chiusura dei Giochi Olimpici e la Cerimonia di Apertura dei Giochi Paraolimpici di Sochi, Russia 2014
AVUDO, Montreal (Montreal – Canada, 2017)

Budapest – Ungheria
«In pochi minuti, il pubblico si adatta a questa strana lingua e viene trasportato in una sorta di nostalgia svolazzante e famigliare, come in un lontano sogno».

«Il tempo diventa un concetto relativo in questo giardino. Non c’è una narrativa lineare, solo sequenze di immagini che ci permetto di assaporare il sentimento di nuotare nel infinito oceano di dolore e ricordo».

Fidelio.hu – 23.03.2017

Mérida – Spagna
«Un viaggio di serenità che sembra un sogno, dove si confondono reale e fantastico e lo spettatore è accompagnato dalla comicità alla riflessione».

Sipse.com – 14.01.2017 – Mérida, Messico

Lugano – Svizzera
«Per te è, quasi paradossalmente, un inno alla vita, alla strepitosa forza del teatro, della fantasia e della creatività, alla fondamentale importanza dell’amicizia nelle circostanze più difficili dell’esistenza».
«Per te è così costellato di momenti in cui grandi superfici di leggerissimo tessuto garriscono, grazie a correnti d’aria di precisione millimetrica, dando vita talvolta ad anime che si rifiutano di partire, oppure a vele di navi fantasma che osano affrontare i peggiori marosi, o ancora a un grande cuore rosso che pulsa».

Corriere del Ticino – 04.11.2016 Lugano, Svizzera

«È prima di tutto un atto d’amore – generoso, appassionato, personale – al quale è difficile rispondere con logica di una recensione».

La Regione – 03.11.2016, Bellinzona, Svizzera

«E poi c’è il vento che soffia impetuoso, facendo danzare colori e poesia, regalando incanto e magia».
«Per te è un’opera emotivamente coinvolgente (…) è uno spettacolo in cui si ride e si piange, ci si commuove e si sorride».

Liberatv.ch – 03.11.2016, Lugano, Svizzera

Distribuzione ed informazioni
ATER – Associazione Teatrale Emilia Romagna
Silvia Bevilacqua
Tel. +39 059.340221
E-mail silvia.bevilacqua@ater.emr.it 

Crediti Foto – Viviana Cangialosi